Cittadini del mondo
Mi è capitato recentemente di leggere qualche scritto di Baden-Powell, alcuni noti e altri per me nuovi, in una raccolta intitolata “Cittadini del mondo” fortemente connotata dai fili conduttori della fraternità e della pace tra i popoli come ben sottolinea la presentazione di Mario Sica.
A distanza di più di ottant’anni dai contesti degli anni ’30 del secolo scorso in cui B-P traeva le sue urgenze educative in una prospettiva di cittadinanza universale, proprio l’attuale premier britannica afferma:“Se credete di essere cittadini del mondo, allora siete cittadini del nulla, significa che non capite cosa vuol dire la parola cittadinanza”; così ha affermato Theresa May, nell’ottobre scorso, all’interno di un discorso anti-globalizzazione.
Mi sembra importante, innanzitutto, porre l’attenzione su questa parola “città”, civitas da cui origina anche civiltà, attraverso alcuni passaggi del dialogo tra G. Giorello e C. M. Martini (Con intelligenza e amore – Ricerca e carità, Longanesi 2015).
Pensiamo alle mura come simbolo di quel movimento di esclusione e di inclusione, ostilità verso il nemico ma anche identificazione della comunità, che secondo Giorello “configura il modo con cui si costituisce l’umanità” e, quindi, fa della città una “mediazione tra natura e cultura” e dell’esperienza della cittadinanza la “base della nostra stessa modernità”. Giorello stesso pone la domanda che è uno dei temi della nostra riflessione: “Vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città?”
Multiculturalismo, multietnicità, pluralismo, diversità di etnie e di religioni caratterizzano la fisionomia delle città, oggi, e ne rappresentano criticità e complessità di problemi di gestione sia per la politica che per il singolo cittadino. Tuttavia più di tre secoli fa un grande filosofo scriveva: “In questa fiorentissima repubblica [città di Amsterdam] e illustre città vivono in piena concordia uomini di ogni nazionalità e di ogni confessione religiosa, i quali se devono collocare il proprio denaro presso qualcuno, si preoccupano soltanto se costui abbia o no risorse e se è solito agire con lealtà o inganno … la religione o la confessione professate non interessano loro” dal Trattato teologico-politico di B. Spinoza, 1670.
Carlo Maria Martini, nel confronto con Giorello, premette di aver posto la città come uno dei “cardini riflessivi” nel suo lungo episcopato in Milano e che “la città, con le sue dinamiche e contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo. Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.”
L’eskenosen, il “venne ad abitare” del prologo del Vangelo di Giovanni, etimologicamente si può tradurre con “si fece tenda” (skené, significa anche “tenda”) che per uno scout è una bella immagine.
Non negandone la complessità e l’alternarsi, nella storia, di progressi e regressi, Martini vede la città come “luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti. Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine. […]
Non si tratta di avere una città ideale ma di sostenere nella città un confronto tra ciò che è in comune alle diverse concezioni.”
Gli scritti di Baden-Powell di cui inizialmente parlavo, molti dei quali costituiscono i suoi discorsi in occasione dei Jamboree degli anni venti (per eccellenza luoghi di educazione all’incontro tra culture e nazionalità diverse), si sviluppano a partire dall’analisi dei pericoli insiti in quelli che lui stesso definisce i “gretti nazionalismi” e dalla constatazione delle disastrose conseguenze della Guerra mondiale.
“Il rovinoso fracasso della guerra mondiale ha dato a tutti noi un rude scossone, svegliandoci a questa realtà nuova: non c’è più un Paese che sia migliore degli altri. […]
La guerra ci ha insegnato che nelle moderne condizioni di sviluppo materiale e intellettuale dobbiamo riformarci moralmente e fare un migliore uso dei benefici della civiltà, altrimenti finiremo sopraffatti da quell’infernale castigo che è la lotta selvaggia di cui abbiamo avuto dimostrazione.” (Jamboree 1921).
Pur nella diversità di linguaggio e di rimandi storici, le parole di B-P sottolineano il principio fondamentale dell’uguaglianza tra gli esseri umani da cui derivano il riconoscimento e il rispetto dei diritti fondamentali che spettano in modo uguale a ogni persona. E se l’uguaglianza fu uno dei principî fondamentali della Rivoluzione francese, nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 si afferma che tale uguaglianza prescinde dal sesso, etnia, cultura, religione… Altrettanto attuale appare una seconda convinzione, ricorrente in questi testi di Baden-Powell, che riguarda l’interdipendenza tra i popoli della Terra, quella fitta e intricata complessità che è andata crescendo fino a ciò che oggi intendiamo con globalizzazione.
“La Grande Guerra ha dimostrato una cosa di cui la gente non si era accorta prima: e cioè che tutti i Paesi sono ora molto dipendenti l’uno dall’altro per ciò che riguarda l’industria e il commercio e che solo mediante la reciproca volontà e cooperazione il mondo può prosperare ed essere felice.” (La strada verso il successo”).
Riguardo alla pretesa di autonomia del singolo, e potremmo anche riferirla ai popoli, in “Generativi di tutto il mondo unitevi” (M. Magatti, C. Giaccardi, Feltrinelli, 2014), gli autori definiscono il mito dell’autonomia un problema dell’immaginario della libertà chiedendosi se il mito dell’autonomia assoluta sia davvero desiderabile e se non rischi, invece, di rivelarsi una trappola ideologica.
“Forse dovremmo riconoscere che nessuno può vivere se non in rapporto alla realtà che lo circonda; che lo limita, certo, ma al tempo stesso lo “abilita”. L’autonomia, in senso assoluto, non può esistere. E per fortuna, possiamo aggiungere, perché forse non è nemmeno così desiderabile, dato che quando rifiutiamo la nostra condizione relazionale finiamo per rinchiuderci in una bolla immaginaria, tenuta in vita dalle incursioni nel godimento consumistico, senza contatto con la realtà.” (cap.10)
In riferimento al nostro ruolo di cittadini “contribuenti”, gli stessi autori si chiedono se, al di là della sua diffusione planetaria, possiamo sentirci soddisfatti dello stato contemporaneo del sentimento democratico; pensiamo al “ripiegamento privatistico”, dagli anni ’80 in poi, con “espansione della ricchezza privata tradotta in un impoverimento della vita sociale e istituzionale, con la crescita delle disuguaglianze, la diffusione dell’antipolitica, l’indifferenza generalizzata. Tutti sintomi della fragilità delle democrazie avanzate.”
Molto interessante e pertinente rispetto al tema della cittadinanza, la distinzione filosofica trattata da H. Arendt tra opera e azione, qui solo come spunto per un possibile futuro approfondimento, è alla base della riflessione del capitolo “Cittadini contribuenti” del già citato saggio sulla generatività. Tipica della modernità è, secondo la Arendt, la prevalenza dell’opera sull’azione e l’eccessiva concentrazione su un fare, ridotto a mero fabbricare, finisce col consumare anche energie umane, sociali e spirituali da cui dipendono convivenza e qualità della democrazia.
“E’ nella ricomposizione tra opera e azione che la generatività gioca le sue carte per superare la società dei consumi e la stanchezza della postdemocrazia. Di fronte a decine, centinaia di persone libere e capaci, ciò che può davvero rendere ricche le nostre società è la capacità di creare nuove condizioni culturali e istituzionali per ampliare gli spazi di generazione, le occasioni di produzione di valore condiviso, gli ambiti di contribuzione personale, i margini di espressione responsabile della differenza.” (cap.69)
Considero senz’altro un’azione generativa la fondazione dello scoutismo da parte di Robert Baden-Powell.
“Quando i giovani cittadini, uomini e donne, in tutti i Paesi, saranno educati a considerare i loro vicini come fratelli e sorelle dell’intera umana famiglia e saranno uniti dal comune obiettivo di servizio e di aperta disponibilità all’aiuto reciproco, essi non penseranno più, come hanno fatto finora, in termini di guerra contro rivali ma in termini di pace e buona volontà degli uni verso gli altri.” (Jamboree 1922).
Donata Niccolai
per In Cammino